Articoli - Verso una nuova fisiocrazia

    di Gianni Bonini

Scandalo dei subprime e dei derivati con i titoli gonfiati ad arte da impalcature di carta che oggi non hanno più mercato, crisi dei mutui a partire da quelli americani, la stretta creditizia come prima reazione a caldo e la conseguente inevitabile depressione del consumo e del consumatore, si è diffuso un contagio globale che non conosce frontiere, di cui la lehmanite – nel senso di Lehman Brothers – rappresenta attualmente la patologia più conosciuta a livello mediatico, ma tutt’altro che l’unica.
Una crisi mondiale che ha origine dal cuore dell’impero americano negli ultimi quindici anni, forse di più, “cosparso di invenzioni ed innovazioni tecnologiche senza pari, finanziate con junk bonds – letteralmente “obbligazioni cartastraccia” – derivati e tutti quegli artifici che economisti, matematici ed agenti di borsa si andavano inventando”, anche a vantaggio di un’immorale crescita di bonus, benefits e stock options.
L’Europa continentale ed il suo modello renano basato su moneta forte,cultura della stabilità finanziaria, primato dell’industria, bancocentrismo, non potevano starne fuori. Nel groviglio inestricabile di legami ed interdipendenze con cui si realizza la globalizzazione si rivelano così instabili costruzioni di ingegneria finanziaria e sociale i miti contemporanei dell’Islanda dei SigurRoss, le City del Regno Unito e della swingingLondon, il boom immobiliare del Mediterraneo spagnolo e l’Hyporeal Estate tedesco, le Dexia transalpine ed il mercatismo degli irlandesi che per primi sono andati in soccorso di cinque banche introducendo garanzie più elevate del loro storico nemico inglese. Le piazze internazionali ruotano ancora tutte intorno alla vecchia colonia olandese di Mahattan e di rivedere gli accordi di Bretton Woodssi parla meno, tutti occupati a tamponare il default ed a ricostruire il consenso dei cittadini elettori e la loro fiducia nel sistema economico democratico.
Una perdita di 1400 miliardi di dollari, secondo il Fondo Monetario, su un PIL mondiale di circa 70mila miliardi, che si ripartisce pro quota più o meno in proporzione alla produzione e di cui all’Europa tocca una bella fetta, circa 1/5, senza contare quanto viene realmente percepito anche per gli effetti di una campagna mediatica che, a livello popolare come tra gli addetti ai lavori, sprofonda nella confusione alimentando una emotività tra i risparmiatori che è difficile criticare. E che dire poi dei guru della Finanza, promotori e agenti, società di rating e di certificazione, analisti e manager, quello che viene definito dagli stessi - ma qui c’è una forte dose di esagerazione quasi per far dimenticare l’assoluta incapacità di previsione dimostrata, il che, se possibile, peggiora ancora il giudizio sullo spessore culturale ed etico del mondo dei servizi finanziari - come lo shock economico finanziario peggiore dopo la Grande Depressione. Altro che “furbetti del quartierino” la pesantezza della crisi fa emergere una casba di mancati controlli e di assenza di vigilanza, di fusioni ed acquisizioni spericolate, di espansioni in mercati ad alto rischio e senza un sistema giuridico unificato a garanzia, di intrecci azionari incestuosi, un incredibile contrasto con l’esperienza quotidiana del piccolo risparmiatore che per accedere al credito è sottoposto a vincoli che non di rado prefigurano una vera e propria usurocrazia.
Da qui le giravolte di posizioni per cui i liberisti diventano improvvisamente dirigisti ed invocano con disinvoltura l’iniezione di soldi pubblici quando non addirittura l’esproprio degli obbligazionisti che dovrebberotrasformarsi in azionisti delle grandi banche in crisi, come se il cliente non avesse già pagato uno scotto sufficiente grazie ai titoli tossici che gli sono stati inconsapevolmente “rifilati”. Insomma ci troviamo di fronte ad una crisi di sistema, come avrebbero detto i vecchi marxisti, di un’acclarata incapacità dei mercati di autoregolamentarsi, di istituzioni e regole ormai non adeguate ad una globalizzazione economica di cui la turbofinanza con il suo carico di sviluppo, anche civile – google -, ed i suoi guasti, è la parte emergente di una situazione di disordine ed anarchia a cui la Politica e le istituzioni internazionali che ne sono l’espressione, sono chiamate a porre rimedio.
E la Politica ha risposto. Richiamata in servizio dalla perdita di onnipotenza del mercato finanziario diventato una sorta di moderno Lucifero, sta cercando e sperimentando soluzioni per ricreare fiducia e consenso con l’utilizzo, come nel caso della BCE, di strumenti di coordinamento che aggirino il rischio di una balcanizzazione del sistema bancario, secondo l’espressione di Bini Smaghi, venendo in soccorso al sistema produttivo e dei redditi per contenere una recessione ormai in atto. Le stime attuali, perché la crisi ha disvelato l’incapacità di previsioni attendibili, parlano di una crescita zero per l’Italia ed in generale per l’area dell’euro, addirittura di un calo dell’1,6% nel 2008 per l’Irlanda. Soltanto nel 2010 dovremmo tornare a veder la luce con una ripresa dell’0,9%.
La verità è che nessuno è in grado in questo momento di valutare complessivamente lo scenario che si prospetta per i prossimi anni la profondità e la vastità della peste finanziaria. In questo contesto bisogna riconoscere che la Politica, la tanto vilipesa Politica, ha mantenuto la freddezza necessaria per attivare una serie di provvedimenti la cui efficacia sarà verificata passo dopo passo. Forse anche perché non ha perso il senso di responsabilità di governare per il bene comune e di traguardare l’orizzonte degli interessi immediati, ma non vi è dubbio che è stato Giulio Tremonti a rompere per primo l’incanto mercatista e Gordon Brown ad intervenire per primo nelle banche, dimenticando il thatcherismo per rilanciare implicitamente l’umanitarismo sociale progressista della Fabian Society e Sarkozy e la Merkel ad intervenire a garanzia dei depositi investendo centinaia di miliardi nelle banche. Sono tempi da Alberto Beneduce, la figura di tecnico e politico che salvò l’economia italiana dalla crisi del 29 e non da Milton Friedman, come dimostra anche il piano del segretario americano al TesoroPaulson di salvataggio bancario attraverso l’assorbimento da parte dello stato dei titoli tossici di dubbia solvibilità.
Insomma la crisi ha spazzato via tante facili chiacchiere sull’”economia smaterializzata, su un nuovo universo sofisticato di tecniche avanzate, di scambi liberati, di alti livelli di vita”che rendono inutile il vecchio quadro dello Stato nazionale, che anzi le frontiere nazionali sono solo ormai “interruzioni di flusso” per usare le parole di un grandcommis della politica sovrannazionale europea, Michel Albert. Non nel senso però che oggi una politica protezionistica possa servire a qualcosa, perché la mondializzazione dell’economia è un dato imprescindibile e quindi le soluzioni devono misurarsi con la dimensione globale dei problemi, come ha ricordato lo stesso Gordon Brown. Nel senso invece di cogliere l’occasione per avviare un processo di rinnovamento etico ed economico dove l’uno è premessa necessaria dell’altro ed insieme formano il tessuto connettivo di una classe dirigente. Del resto la questione della finanza creativa, se vogliamo, muove dai tempi di Ronald Reagan, dalla sua azzeccata detassazione dei capital gains che oltre a rilanciare gli investimenti nell’economia reale, produsse anche un meccanismo, probabilmente allora inevitabile, di speculazioni finanziarie con l’acquisto degli junk bonds di Wall Street, che travolse centinaia di Casse di Risparmio americane i cui debiti sono stati presi in collo dallo Stato e quindi dai cittadini.
Domandarsi oggi se questi avvertimenti potevano essere meglio utilizzati dalle istituzioni bancarie è giusto quanto inutile. Meglio pensare a come ristrutturare l’economia e a rifondarne il sistema di valori, a partire da una riconsiderazione dei pesi dei relativi comparti dentro la globalizzazione. E quindi in primis di quello del mondo agricolo nel nostro Paese, in Europa, nell’universo del WTO. Il caro cibo dimostra che non sarebbe male iniziare a tornare nei campi.Questa affermazione non è stata fatta al bar sull’onda emozionale di qualche notizia mattutina. E’ il titolo di un commento su un quotidiano autorevole come Il Foglio di Giuliano Ferrara, che sostiene la necessità di un aumento delle terre coltivate e della loro resa, anche attraverso il superamento della superstizione sui prodotti geneticamente modificati, indotto sopratutto dal reddito crescente dei cosiddetti paesi sottosviluppati i cui abitanti mangiano di più e meglio e dal conseguente aumento dei prezzi. Ne segue una previsione sulla fine in tempi medi del sistema di sovvenzioni negli USA e in Europa per il contenimento della produzione.
Ora è indubbio che al di là delle paure e delle suggestioni della fase che stiamo attraversando per cui insospettabili mentori scoprono la bontà dei fondi e dei prodotti etici, i bilanci sociali e la sostenibilità e così via, dando vita ad una nuova prova di trasformismo, il nuovo ordine mondiale politico ed economico che tutti a gran voce reclamano, deve riportare al centro della Storia l’uomo e la sua identità valoriale.
La crisi offre tra i molti svantaggi la possibilità di operare concretamente per lasciarci alle spalle una visione estetizzante della politica internazionale, fatta spesso di retorica e di organismi sovranazionali ridondanti, di finzioni egualitarie, di celebrazioni sopra le righe della net economy, di moralismi a buon mercato, impastati di un multiculturalismo che non di rado è odio di sé, un atteggiamento suicida in cui si è distinta l’Europa e la sua dorata burocrazia nella rincorsa ad una libertà illimitata e radicale, “nella quale – sono parole di Joseph Ratzinger del 2001 – la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della libertà umana”.Si consumano ad esempio in questi anni nuove ipocrisie e sperequazioni a danno degli indifesi del mondo quando assistiamo a sollevazioni ideologiche comesugli ogm che garantiscono costi minori e rese più elevate e contemporaneamente si ostenta completa indifferenza rispetto a politiche sugli aiuti economici condizionati al criterio del “numerusclausus” della popolazione mondiale.Il graduale rovesciamento di questi “difettivi sillogismi”, tanto per scomodare l’undicesimo canto del Paradiso - un’impietosa fotografia del capitalismo finanziario l’ha definito uno che se ne intende –comporta una prospettiva chedia maggiore spazio ai bisogni reali delle popolazioni delle aree più avanzate come ai poveri del sud e del sud est del mondo, combattendo la finanziarizzazione dell’economia e il malthusianesimo, per dare alle emergenze globali di cibo ed energia, in un contesto di sostenibilità ambientale, una risposta adeguata e coordinata.Sentiamo avanzare una grande voglia di riscattare la persona, di rigettare la riduzione a merce dell’attività umana, di riconoscere la sacralità ed intangibilità della vita umana, di ridare alla tecnica ed all’economia un ruolo di servizio alla dignità umana e non fini a sé stesse. Allo stesso tempo – è sempre il Cardinale Ratzinger che parla – “dominio sulla natura non significa utilizzazione violenta della natura” perché “l’origine stessa dell’uomo è un processo insieme naturale ed umano”. Spetta a noi europei impegnati in una tortuosa costruzione unitaria, accogliere questa domanda di nuovo umanesimo, di cui è nucleo fondamentale l’eredità cristiana ma in cui convergono anche gli ideali morali dell’illuminismo.
Una chiamata alla responsabilitàche ci investe particolarmente nella misura in cui, in quanto imprenditori, sappiamo che la proprietà privata implica il dovere di contribuire al benessere comune. Siamo nel mondo dell’agricoltura italiana il soggetto politico che ha dimostrato in questi anni di saper combattere battaglie innovative, anche sul piano della visione culturale e in controtendenza, che travalicano l’aspetto sindacale senza peraltro trascurarlo, anzi dandogli nuova autorevolezza. E’ cresciuta la consapevolezza di noi, di quanto valiamo, del valore aggiunto che conferiamo al PIL nazionale in un Paese che troppo spesso ci ha sacrificati a logiche di sviluppo che oggi segnano il passo. Non solo abbiamo operato e stiamo operando per riorganizzare le filiera agro-alimentare in maniera più equilibrata e più attenta alle persone-consumatori, ma alla produzione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli abbiamo affiancato l’offerta di servizi collegati strettamente al territorio, quale la produzione di energia elettrica. Su questa idea-forza è nata Finbieticola-Terrae, la Company che recupera risorse e competenze del vecchio comparto saccarifero per aprire una prospettiva produttiva vantaggiosa per gli agricoltori e per gli italiani che dipendono per l’85% del fabbisogno energetico dall’estero. Così come oggi l’azienda agricola si evolve, cambia pelle, accetta la sfida della diversificazione coniugando la produttività agricola alla domanda di mercato con le agro energie,altrettanto pensiamo debba essere fattodalla politica economica riconoscendo all’agricoltura un ruolo centrale e trainante ed aumentando gli investimenti pubblici e privati al settore rurale.
E’ l’ora di una nuova Fisiocrazia, dal nome del movimento che nel Settecento propugnava di contro al mercantilismo l’idea che la vera ricchezza risiedeva nella terra e nell’agricoltura, ma che oggi va inteso come recupero politico e culturale del valore che l’agricoltura attraverso la sue innovazioni produttive è in grado di apportare dentro l’attuale crisi mondiale, che potrebbe segnare la fine di un ciclo basato sull’egemonia della Borsa.

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